DIO NON E' ABBATTUTO
Timothy J. Clark
arteideologia raccolta supplementi
nomade n. 7 dicembre 2013
RINEGOZIARE GLI ATTI MANCATI
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Il V capitolo del libro di T.J. Clark "Addio a un'idea", prende le mosse da questa foto che raffigura un tabellone di propaganda di El Lissitzkij in una strada di Vitebsk nel 1920

[...] Il testo che i seguaci di Malevič lessero più attentamente nel 1920 fu, a quanto sembra, quell'insieme di tesi che circolavano allora in forma manoscritta, col titolo ermetico Dio non è abbattuto [1].
Alcuni frammenti ne sono già apparsi, e appariranno ancora, in questo capitolo. Non ho alcuna intenzione di raccoglierli insieme, ma credo opportune fornire al lettore qualche chiave di lettura di questo testo.
II pamphlet è una specie di dibattito fra tre vettori o tre possibilità, chiamate Arte, Chiesa e Fabbrica. Rare volte il lettore può capire con sicurezza quale delle tre stia parlando, o se esse siano sopraffatte dalla voce dell'autore; e non è quasi mai chiaro che cosa «significhino» Arte, Chiesa e Fabbrica [2].
«Fabbrica» sembra significare talvolta un modernismo ingenuo, talaltra il sogno della tecnologia, e altre ancora - come ho già detto - il marxismo e il Partito. Ma quest'ultimo è anche la «Chiesa», o una delle forme della «Chiesa» (uno dei segni che «Dio non è abbattuto»).
Alcune cose diventano più chiare se Arte, Chiesa e Fabbrica sono intese come i tre necessari e ineludibili aspetti di quel progetto che fu l'UNOVIS. Allora il testo di Malevič può essere letto come una frenetica meditazione dialettica su tre modalità o momenti della pratica sociale (la Tendenza umana alla perfezione creativa, la rituale autodifesa e chiusura in se stessa della setta o del culto, e l’ardente aspirazione a un mondo materiale, tecnologico) che persisteranno inevitabilmente in ogni tentativo di trasformare il mondo, una volta che l'Arte sia morta. Sono ben lontano dall'affermare che questo inquadramento generale risolva tutti i singoli problemi di interpretazione; ma esso contribuisce, quanto meno, a spiegare perché Dio non è abbattuto sembrò avere tanta importanza pratica per Kogan e Čašnik. Il libro è una guida ai vari errori e trabocchetti che ingombrano la strada del lavoro collettivo e dello schiacciamento dell'individualità.
Com'è naturale, quella guida - date le circostanze - aveva necessariamente in vista il marxismo. L'errore fondamentale del marxismo (e della religione) consiste, secondo Malevič, nella tenace convinzione che sia possibile vedere il mondo come un tutto, che la totalizzazione sia possibile [3]. Malevič ha la certezza che questa conoscenza completa non potrà mai essere ottenuta, e neppure tentata: neanche «dialetticamente», perché la dialettica introdurrebbe in essa un senso di provvisorietà, di necessaria contraddizione. Ciò significa civettare con l'inconoscibile. E’ un materialismo che distoglie gli occhi dal Quadrato nero [vedi].
Direte che Malevič non era propriamente un filosofo, e che i colpi da lui inflitti alla «totalità» sono piuttosto grossolani (un aroma familiare ai lettori degli ultimi anni del xx secolo). Ma una cosa egli fu capace di fare. Riuscì a suggerire che cosa avrebbe potuto essere una conoscenza non totalizzabile. La sua prosa ne offre un esempio serio e convincente. Non era uno sciocco, non era un giullare accademico. Sapeva che cosa il mondo avrebbe fatto del suo gioco testuale. Perciò troviamo, intrecciato nel suo testo, l'accenno a un diverso tipo di conoscenza, che sarebbe stata in grado di totalizzare perché aveva finalmente riconosciuto, in modo esplicito, la sua mancanza di legame col «mondo». 

Mi sembra che sarà possibile analizzzare, studiare e conoscere solo dopo aver estratto un'unità [dal mondo delle cose e delle apparenze], un'unità che non abbia alcun rapporto con l'insieme delle cose circostanti e sia libera da ogni influenza e da ogni stato di soggezione. [4] 

Qui, penso talvolta, si trova il primo accenno a una forma veramente dura (veramente retorica) di materialismo testuale. Naturalmente, era anche (e intendeva essere) una descrizione della pittura suprematista. 
I membri dell'UNOVIS ebbero probabilmente accesso a molti esempi dei vari generi di lavoro a cui Malevič si dedicò quando era ancora un pittore; in ogni caso, alle opere da lui eseguite a partire dal 1915. Per esempio, in una delle fotografie da Alice-nel-paese-delle-meraviglie che hanno per soggetto l'UNOVIS in sessione [vedi], si vede - appeso in alto sulla parete di fondo - un dipinto astratto del maestro, dall'aspetto appropriatamente bizzarro. Il profilo da Duca d'Urbino di Malevič si staglia sulla lavagna nera, accanto a un satellite suprematista che egli sta ancora disegnando e spiegando a Čašnik e Khidekel. Gli studenti dell'UNOVIS erano evidentemente liberi di saccheggiare tutte le fasi del suprematismo. Le istantanee superstiti del loro lavoro ne sono la prova. Ma inevitabilmente questi stadi sarebbero stati visti alla luce di quello finale: i dipinti in bianco su bianco che Malevič aveva eseguito durante la Rivoluzione d'Ottobre, che sembrarono aver portato al suo abbandono dell'arte [vedi]. Furono questi i quadri che divennero un'ossessione per le esercitazioni dell'UNOVIS nel 1920; questi e l'onnipresente Quadrato nero. (Malevič aveva disegnato quest'ultimo, in negativo, in cima alla lavagna nera, quasi fosse la Prima Lezione, da tenere costantemente sotto gli occhi. Iudin, che vediamo qui seduto in primo piano, sembra aver rinunciato all’idea del quadrato come aureola o acconciatura, e se lo e debitamente cucito sulla manica).
E’ difficile dire se e fino a che punto i membri dell'UNOVIS fossero in grado di capire la serie di dipinti Bianco su bianco. Molti  testi di Malevič che ho già citato («Avanti, compagni aviatori...», ecc.) furono da lui scritti avendo in mente proprio la serie Bianco su bianco. Sono testi apocalittici. Si riferiscono tutti a questioni conclusive, finali. Ma ciò non voleva dire che chi osservava e utilizzava i quadri della serie Bianco su bianco guardasse – attraverso l'effettiva realizzazione manuale e pittorica di quei dipinti - a un loro presunto vuoto assoluto. Essi non sono vuoti. « Dio, come mi ero sbagliato a proposito di questi quadri!», ricordo che mi disse, davanti a essi, Michael Fried alcuni anni fa: «Credevo che fossero soltanto del gesti estremistici, e invece sono delle vere opere di pittura! » Proprio così. Immagino che El Lissitzkij si vide costretto anche lui a cambiare opinione. E a rispondere, come tutti gli altri membri dell'UNOVIS, alla domanda che sembrava logicamente conseguirne: se sono vere opere di pittura, se si tratta - anzi - dei soli dipinti prodotti finora dalla rivoluzione, quali altri dipinti sono adesso possibili? Si ascoltavano le lezioni di Malevič, si studiavano attentamente le 33 tesi di Dio non è abbattuto, soprattutto perchè egli sembra cercare una soluzione a questo problema.
In altri termini, un seguace di Malevič doveva in pratica fare i conti con la straordinaria fisicità e concretezza di Malevič come pittore, e con il modo in cui quelle sue qualità venivano impiegate nella ricerca di una conclusione, fosse pure autoliquidatrice. Questo era, ed è tuttora, il paradosso di Malevič.
Nessun pittore era mai stato meno schematico di lui: ogni centimetro quadrato delle sue tele (anche, e forse soprattutto, quelle che contenevano poco o niente), è tremendamente particolareggiato e minuzioso, come a voler dimostrare una tesi in modo irrefutabile, o a voler esorcizzare - con una magia apotropaica – una sorta di orrore della singola particolarità. E’ questa magia che fa di lui un pittore. E' questo il progetto di Malevič. Egli vuol dire: la verita del mondo è il Nulla che si nasconde dietro di esso. «La ragione non può ragionare, e il giudizio non può giudicare, perché nulla esiste in Natura che possa essere giudicato, valutato razionalmente o esaminato: essa manca di quell'unita che possa essere considerata come un tutto. [5]
Ma supponiamo che voi siate arrivati a concludere che la pittura è l'unico modo di mostrare quel che abbiamo appena detto. Che vi siate formati la convinzione che il veicolo adatto per questa eterna ironizzazione del sogno della totalità (un tema che non è affatto confinato a Dio non è abbattuto) sia la pittura: proprio perché la pittura è, di tutte le arti, quella che ha nelle ossa la totalizzazione.
Avreste davanti a voi il lavoro di tutta una vita. La vostra pittura si porrebbe il compito di costruire perennemente un nuovo mito, o una nuova figura, della fine della pittura. Cosi potreste veramente materializzare il sogno di una totalità che si risolve nel nulla. Potreste vedere la pittura ironizzare sulla sua stessa esistenza. Potreste vedere la sua sostanza fisica (nonostante tutto ciò che, in essa, puo apparirci come un-dono-di-Dio-o-della-Fabbrica) schiudersi alla «eccitazione insensata dell'universo» [6].
(Malevič, nella sua metafisica di inarrestabili, e inconoscibili, stati energetici, può spesso assomigliare stranamente al Diderot dei Pensées sur l'interprétation de la nature. Il modernismo, come abbiamo già notato, è ossessionato dal sogno di una scienza di tipo settecentesco).
Vi erano molti modi di conferire ai dipinti i caratteri che Malevič desiderava. Talvolta ciò poteva essere realizzato disseminando in modo apparentemente casuale delle entità indipendenti [vedi], ognuna delle quali ripeteva questo messaggio (ma era poi un messaggio o una minaccia?): «La perfezione della Natura consiste nell’assoluta, cieca libertà delle sue parti ». Altre volte (molte altre volte), la bruta presenza della pittura in quanto entità - ad esempio un quadrato o un rettangolo - dava origine a un'immagine di se stessa all'interno di se stessa, e le due totalità si sarebbero confermate e confutate a vicenda fino a quando l'osservatore non avesse voltato le spalle al quadro sbuffando.
Altre volte ancora, vi sarebbe stato - all'interno della cornice - un flusso e riflusso di elementi pittorici che possedeva piuttosto l'aspetto di un modo di dipingere - o di sognare - una radicale alterità rispetto al mondo, o una sua fuga da esso. « Seguitemi, compagni aviatori...»  Da un certo punto di vista è una perentoria, rigida corsa verso l'alto, come di forze o particelle rinchiuse in una stasi di influssi planetari [vedi]. O una pericolosa altalena di punte e di travi. O un lancio di palle e di bastoni in aria [vedi] . « Un sistema freddo, duro, tetro - scrisse Malevič nel 1919, - messo in movimento dal pensiero filosofico ».[7]
Più volte, nei suoi scritti postrivoluzionari, Malevič si definì un colorista. Per esempio, nel  sopracitato manifesto del 1919:

Mi diventò chiaro che si dovevano costruire delle nuove strutture per dei dipinti di puro colore. Ed era necessario costruirle per obbedire alle esigenze del colore. Come difensore dell'indipendenza individuale nell'ambito del sistema collettivo [e già evidente qui il linguaggio delle lezioni di Vitebsk dell'anno dopo, e Malevič da chiaramente per scontato che il problema del rapporto fra individuo e collettività ha dirette conseguenze pittoriche], io sono convinto che la pittura deve sbarazzarsi anche della pittoricità - con una commistione di colori - e fare del colore un'unità autonoma, che svolga liberamente il suo ruolo nella costruzione complessiva.[8]
Agli appassionati d'arte del tardo Novecento può sembrare strano che lo stesso pittore sostenga che i suoi quadri obbediscono «alle esigenze del colore» e che essi sono, nel medesimo tempo, sistemi «messi in movimento dal pensiero filosofico». Sono due dichiarazioni, che nel modernismo, venivano considerate fra loro incompatibili. Ma forse nel caso di Malevič non lo sono.
Chiaramente Malevič non è un colorista nello stesso senso in cui è un colorista Matisse quando dipinge Armonia in rosso, o Kandinskij quando dipinge In grigio.
Egli non vuole che l'osservatore, di fronte a Supremus n. 50 o a Supremus n. 56 [vedi], creda che la costruzione formale del quadro sia nata da un'intuizione di ciò che il colore esigeva per diventare se stesso, per consumare e irradiare il suo mondo particolare (totalizzato). II colore non produce alcuna magia totalizzante in Malevič, anche quando sulla tela vi è un colore solo.Non corrode la forma, né la rende provvisoria. Ciò è vero anche in Bianco su bianco.
Quando talvolta in Malevič ci si imbatte in alcune forme colorate che sfumano gradatamente nello sfondo sul quale fluttuano, ciò non va inteso come un segno di instabilità o di indeterminatezza: in questo caso, non significa affatto che il quadrilatero giallo sia fragile. E’ robusto come l'acciaio. Il titolo che Malevič dette, alcuni anni dopo, a un disegno associato a questo quadro è significativo: «Elemento suprematista il momento di dissoluzione della sensazione (non oggettività)» [9].Cioè il momento nel quale la sensazione cromatica rivela il suo autentico carattere fenomenologico. Che non è la fluidità o la mancanza di forma (questo era stato l'errore degli impressionisti), ma il Nulla. «Il luogo vuoto nel quale non viene percepito Nulla, se non la sensazione»[10].
Quando talvolta in Malevič ci si imbatte in alcune forme colorate che sfumano gradatamente nello sfondo sul quale fluttuano, ciò non va inteso come un segno di instabilità o di indeterminatezza: in questo caso, non significa affatto che il quadrilatero giallo sia fragile. E’ robusto come l'acciaio. Il titolo che Malevič dette, alcuni anni dopo, a un disegno associato a questo quadro è significativo: «Elemento suprematista il momento di dissoluzione della sensazione (non oggettività)» [9]. Cioè il momento nel quale la sensazione cromatica rivela il suo autentico carattere fenomenologico. Che non è la fluidità o la mancanza di forma (questo era stato l'errore degli impressionisti), ma il Nulla. «Il luogo vuoto nel quale non viene percepito Nulla, se non la sensazione»[10].
Malevič, direi, è un colorista duro, freddo: un colorista calcolatore. E il colore (nel modernismo) è il luogo nel quale si suppone che i calcoli facciano nascere il sentimento. Il sentimento non è una nozione di cui Malevič si avvalga. E’ al di sotto della sua dignità di nichilista. Quando adopera quella parola (ogni tanto Malevič parla di un'arte di «puro sentimento», o di costruzione suprematista di «un mondo nuovo, un mondo di sentimenti», e così via), egli non intende mai gli affetti. Gli affetti sono nemici dell'arte. Essi sono parte di quella «feccia dell'"interiorità» da lui particolarmente detestata [11].
L'espressione, nell'universo di Malevič, è un concetto superfluo, che ci fa regredire in quel mondo nel quale pensiamo di abitare. E’ un giocattolo da bambini.
A mio parere, l'accento che Malevič pone sul colore nelle spiegazioni che dà di se stesso è meno paradossale di quanto, a prima vista, possa sembrare.
Il colore, nella sua concezione, era l'aspetto della nostra esperienza quotidiana che, già dal punto di vista del senso comune, eludeva i nostri migliori sforzi per reificarlo. Anche il linguaggio ordinario lo ammetteva: sapeva che nessun colore e mai del tutto «locale». L'azzurro del cielo è la nostra comune (e riconosciuta) metafora per indicare l'appartenenza e la non appartenenza di ogni colore al mondo.
Malevič, naturalmente, si era aperto a forza un varco nell'azzurro del cielo.
Ho squarciato il paralume azzurro delle costrizioni cromatiche [...] Ho eretto i semafori del suprematismo. Ho superato il rivestimento colorato dei cieli. [12].

Voleva che il colore fosse una dura, fredda assenza: voleva che l’«in nessun luogo» del colore fosse qui. E quale miglior visualizzazione poteva esserci di quel paradosso se non (ancora) il fatto della bidimensionalità del dipinto ?
Durezza e freddezza sono qualità che il colore può assumere solo se viene continuamente appiattito, spogliato della sua radiosità e immaterialità, e collocato opportunamente sulla superficie. La geometria fu uno dei mezzi di cui Malevič si avvalse per realizzare questo suo intento. Nei suoi dipinti il colore è sempre racchiuso («nel modo piu tetro», mi sembra sia il caso di dire) entro orli duri e rettilinei. Un altro mezzo da lui usato è il trattamento del colore. Non vi è nulla di più materiale di un biancastro di Malevič.
Ma, di solito, vi sono anche altri aspetti del quadro (in particolare, la sua composizione) che incoraggiano l'osservatore a vedere questo materiale come non soggetto alla legge di gravità. Elevazione ed evasione e la grande metafora di Malevič dal 1915 al 1918.
Ma non si tratta mai di un colore che si volatilizza nell'etere o si diffonde come un lampo ai quattro angoli della stanza. Il colore è un peso che e stato innalzato da qualcos'altro. I colori sono pianeti in un sistema planetario. La composizione è un'energia che mantiene in aria le forme colorate, ma solo temporaneamente. Siamo chiamati a condividere l'ansia del giocoliere e, in pari tempo, la sua assorta concentrazione.

Sto cercando di ricostruire l'idea della pittura di Malevič che Malevič stesso può aver fatto sorgere nella mente dei suoi studenti. O in quella di Nina Kogan e di El Lissitzkij.
Lo avevano conosciuto in primo luogo come scrittore e conferenziere, e il fatto che egli stesse astenendosi dal dipingere li sconcertava (forse anche li rallegrava). Avevano avuto a disposizione alcuni esempi - alcuni allo stato di semplice progetto, altri già realizzati [vedi] [vedi] - di quella che egli riteneva fosse l’arte per le pubbliche occasioni. Forse erano disegni che già tendevano verso l'architettura, del genere che dette origine – alcuni anni dopo - a quell’architettura/scultura che egli chiamò Architect [vedi].
E’ indubbio che l'architettura interessava collettivamente i membri dell'UNOVIS. El Lissitzkij era responsabile del Dipartimento di architettura a Vitebsk. Quando lasciò la carica, gli succedettero Čašnik e Khidekel.
Ciò non significa affatto, a mio parere, che studenti e colleghi apprezzassero meno le opere che Malevič aveva, un tempo, eseguito come pittore. Come ho già avuto occasione di dire, « architettura » non era soltanto il nome con cui veniva designata una pratica artistica separata dalle altre; era anche una tendenza insita nella pittura (o in tutte le arti). 
Abbiamo bisogno di un laboratorio nel quale creeremo la nuova architettura. E in esso noi pittori dovremo fare ciò che gli architetti non possono fare. Abbiamo bisogno di piani, abbozzi, progetti, esperimenti. [13] 

Gli studenti dell'UNOVIS non volevano assolutamente destinare a usi utilitari le lezioni del maestro. Non questo intendeva suggerire il piatto di ceramica suprematista che Malevič teneva sottobraccio. « L'intenzione ce la siamo lasciata alle spalle [...] La forza del PROUN consiste nel creare delle finalità » [14]. «Quelli di noi che sono fuggiti possono vedere delle vaste distanze aperte dalla Rivoluzione; noi possiamo vedere una grande svolta. E la ragione è sempre la stessa: i confini della competenza sono stati fatti saltare in aria» [15]

... le prime fucine del creatore dell'onnisciente onnipotente onnifica costruzione del nuovo mondo debbono essere i laboratori delle nostre scuole d'arte, quando l'artista ne uscirà si metterà al lavoro come capomastro come insegnante del nuovo alfabeto e come promotore di un mondo che in realtà già esiste nell'uomo ma che l'uomo non è stato ancora in grado di percepire.
…  e se il comunismo che mette sul trono il lavoro umano e il suprematismo che ha levato in alto la quadrata bandiera [il Quadrato nero] della creatività marciano adesso insieme nei prossimi stadi di sviluppo è il comunismo che dovrà restare indietro perché il suprematismo - che abbraccia la totalità dei fenomeni vitali - persuaderà tutti ad affrancarsi dal dominio del lavoro e dal domimo dei sensi  ubriachi. Libererà tutti coloro che sono impegnati nell'attivita creativa e farà del mondo un vero modello di perfezione, cioé il modello che attendiamo da kazimir malevič.
[16]

Questo è il modello che riteniamo di poter scorgere nella sua arte.
Quale modello, dunque? Forse il modo migliore di rispondere a questa domanda è quello di porre direttamente a confronto Malevič e El Lissitzkij, la cui voce è l'unica che ho sin qui fatto parlare per l'UNOVIS in generale. I critici che si sono occupati di arte moderna sono sempre stati colpiti dal contrasto fra il maestro e il suo principale discepolo, e hanno avuto ottime cose da dire in proposito [17]. Ciò che di diverso io voglio fare è utilizzare il confronto fra Malevič ed El Lissitzkij per capire principalmente l'arte del primo, non quella del secondo. Per quanto riguarda Malevič, infatti, abbiamo bisogno di tutto l'aiuto possibile. (Quella di El Lissitzkij è una lettura fortemente fuorviante del suprematismo. Per questo essa è molto utile ai miei scopi. Solo Čašnik fu capace di una risposta altrettanto peculiare; ma essa fu in gran parte tardiva, e troppo vicina al termine della breve vita di Čašnik per poter essere adeguatamente sviluppata).
Malevič istituì spesso un'analogia fra la sua pittura e l'energia atomica. «Atomizzazione - la libertà delle varie unità indipendentemente dalla loro composizione...» [18].
Ho già citato alcuni frammenti, fra loro collegati, di questa tesi. Čašnik fu d'accordo fin dall'inizio con questo aspetto del pensiero del maestro. Il suprematismo equivaleva, per lui, a dinamismo, a vari tipi di alta velocità. L'errore fondamentale di troppi seguaci di Malevič, affermò Čašnik nel suo scritto del 1922 per il conseguimento del diploma, consiste nel non vedere che la chiave di lettura di un dipinto di Malevič non è la geometria in generale, ma una geometria che «esprime la condizione dinamica delle forme » [19]. « Possiamo renderci conto dello spazio, - disse una volta Malevič, - solo se ci distacchiamo dalla terra, se il fulcro scompare» [20].
Ora a me sembra che El Lissitzkij avesse due diverse opinioni su questo aspetto del suprematismo. Non che fosse incapace di comprenderne la centralità, o non sapesse, se del caso, farsi sostenitore di questa idea (ho riportato, da suoi scritti del 1920 e 1921, un numero sufficiente di passi perchè chiunque possa rendersi conto che egli aveva molte frecce al suo arco), ma quell'idea era in conflitto con i suoi più profondi istinti di artista. Ho gia detto che la sua concezione dell'architettura era metaforica. Era utopica. Significava riunificazione delle arti, ma significava anche una loro nuova materializzazione.
Doveva essere l'espressione di specifici pesi e tensioni, doveva gettare un ponte fra Ie diverse parti ed equilibrarle. Ponte, Citta, Arco, Mosca: sono i tipici e, a mio parere, necessari titoli o sottotitoli di moltissimi lavori da lui eseguiti fino a quel momento. L'ultima cosa che puo esserci in un dipinto di El Lissitzkij [vedi] è la scomparsa del fulcro. Indubbiamente le percentuali che siamo invitati a calcolare per scoprire dove si trovi realmente il fulcro sono spesso tali da far girare la testa. Gli spazi sono indeterminabili, i solidi e i vuoti si convertono immediatamente gli uni negli altri. Ma l'intera costruzione è tesa e stabile. L'architettura equilibra Ie forze e le raffrena. L'architettura, intesa in questo senso, è la metafora dominante dell'arte di El Lissitzkij. 

Abbiamo ispezionato i primi stadi dello spazio bidimensionale della nostra struttura, e l'abbiamo trovata salda e resistente come la terra stessa. Qui stiamo costruendo come in uno spazio tridimensionale; perciò anche qui la prima esigenza è quella di equilibrare le tensioni delle forze delle singole parti. [.,.] La forma materiale si muove nello spazio lungo assi specifici: le diagonali e le spirali delle scale, le verticali degli ascensori, le orizzontali dei binari ferroviari, le rette e le parabole dell'aeroplano... [21].

 Non credo che Malevič avrebbe potuto scrivere anche una sola delle frasi ora citate. Certamente egli avrebbe convenuto che la superficie del quadro dovesse essere «salda e resistente», ma non « come la terra stessa»! Questa è proprio la metafora di cui voleva sbarazzarsi. Una volta egli chiamò Casa in costruzione un quadro astratto da lui dipinto [vedi], ma anche in quel caso la questione decisiva era la non-compiutezza. Quella casa non avrebbe mai avuto un centro di gravità. A ogni modo, quel titolo era un'eccezione. Quelli da lui preferiti sono: Aeroplano in volo, Realismo pittorico di un giocatore di calcio, Suprematismo dinamico, Sensazione di dissoluzione (Non-esistenza),
Autoritratto in due dimensioni. Terra e casa hanno valenze negative nei manifesti di propaganda di Malevič. «La terra è stata abbandonata come una casa rosa dai vermi», e così via.[22]
Naturalmente questi titoli, e la retorica che li accompagna, sono in un certo senso fuorvianti. La terra non è stata, e non sarà mai abbandonata, in un'opera di Malevič, perché la pittura, piaccia o no, è terra.
Malevič è un materialista, là dove importa esserlo: nel modo di procedere, sulla superficie, nel suo senso di come la pittura deve dichiarare se stessa. Maestro e allievo concordano su questo. (I limiti di El Lissitzkij come artista sono legati, in realtà, alla difficoltà che egli ha di collocare la materia sulla superficie piana. Troppe volte la materia è qualcosa che egli melodrammatizza - tutte quelle ombre di scale e di ascensori, tutto quel gesso e quella stagnola - come opposti di cui è fatto il quadro).
Il difficile, ancora una volta, è trovare il modo di descrivere come il materialismo e il nichilismo di Malevič convivano e, in particolare, quale atteggiamento essi dettino nei confronti della composizione. Perchè, in Malevič, il senso della composizione è ciò che fa della sua arte qualcosa di assolutamente unico. Ciò su cui maggiormente prosperava l'UNOVIS.
L'arte astratta nella sua prima fioritura - soprattutto in Kandinskij e in Mondrian - si preoccupò (giustamente) della composizione o della compostezza visiva di un campo non-figurativo. C'era la sensazione che, senza i criteri e gli obblighi legati alla produzione delle verisimiglianze, gli ordini assunti dagli elementi di un quadro sarebbero stati tendenzialmente troppo precisi, o troppo ovviamente armonizzati in maniera troppo ovvia.
La composizione avrebbe finito con l'apparire semplicemente ingegnosa: troppo perfettamente equilibrata, troppo attenta a rivelare le opposte tensioni delle forze estetiche. Gli artisti astratti fecero fronte a questo pericolo in modi diversi: Kandinskij con una temeraria proliferazione dei particolari pittorici, Mondrian con un'integrale ripetizione degli elementi, o con un'ingannevole austerità e riduzione di essi.
Quel che vi è di speciale in Malevič - in Supremus n.50, ad esempio, o nel quadro del 1916 nello Stedelijk Museum [vedi], o nello straordinario Supremus n. 58 [vedi], è la volontà di realizzare un'accumulazione equilibrata di elementi che potesse, in ogni punto, essere disposta in un ordine che apparisse raffinato, o scontato, o astuto, o eccessivamente calcolato; ma facendo in modo che, in pratica, questo ordine fosse i risonanza la metafora dell'infinito. Evocare da questi materiali troppo beneducati l'abisso, l'elevazione, l'eccitazione, la non-esistenza: è questo l'effetto Malevič. 

L'uomo è padrone del mondo solo nella misura in cui la sua produzione delle cose conduca sempre verso l'ignoto; e tutte le officine e le fabbriche esistono solo perchè esiste una perfezione sconosciuta, nascosta nella Natura, che tutte le officine e le fabbriche cercano di combinare in un'unica totalità della tecnica. [23] 

Non ci riusciranno mai. La Natura non puo essere totalizzata. La sua verità è vuotezza ed eccitazione. 

Se il materialismo si accontentasse di costruire un'impalcatura per mezzo della quale ascendere fino alle nebulose, e di trasformare se stesso in tanta nebbia nel giro del gran vortice cosmico, questo sarebbe, a mio parere, un punto a suo favore; ma finché esso si presenta soltanto come «lotta per la vita» o lotta con la Natura, tutte le sue vittorie mi sembrano insignificanti. 

Questo è Malevič nel 1920[24]. Questa è la sua concezione del marxismo e della guerra civile.
Ma si potrebbe porre la questione anche in questo modo. C'è, negli scritti di Malevič e nella sua pratica pittorica, un aspetto che potrebbe far supporre che tutta la sua arte sia simile al Quadrato nero. O alle tele che contengono un solo quadrilatero inclinato, o un rettangolo e un cerchio, o un rettangolo invaso da un triangolo, o il piu scarno dei Bianco su bianco. Ciò che vi è di misterioso in Malevič - cio che rende così emozionanti le fotografie delle sue «esposizioni» del 1915, 1919 e 1927 [vedi] è la coesistenza delle piu complesse, «composte», o «dinamiche», opere suprematiste con le icone del nuovo non-essere; e il fatto che la compostezza dei dipinti a più elementi si presenti come parte, e parte necessaria, della nuova pittura del mondo.
Ma il paradosso è ancora piu profondo. Infatti, più si guarda, e più risulta evidente come la bellezza e la chiarezza del senso della composizione di Malevič sono essenziali all'effetto finale dei suoi dipinti, soprattutto in situ, quando sono circondati dai dipinti a loro più vicini. E cio che conferisce alle sue migliori pitture la loro aria di profonda inevitabilità, di rispondenza a un fine e di veridicità. Per quanto meraviglioso sia un quadro come Supremus n. 56 [vedi] , esso non mi sembra, in ultima analisi, così bello come il cumulo delle diagonali del Museo Stedelijk [vedi] o la nitida mappa del sistema solare al MoMA [vedi].
Dipende un po' troppo, per la sua vitalità, dalla tattica di Kandinskij: moltiplicazione di singoli dettagli, cellule pittoriche che si dividono e si ridividono in un turbine di polvere cosmica. Vita multicolore, come Kandinskij la chiamò una volta.
L'effetto è splendido, ma sento la mancanza della dichiarazione dogmatica finale: «Le cose stanno così». E Malevič senza dogmatismo non è Malevič. La sua immaginazione visiva è stimolata al massimo - e diventa pienamente se stessa, scoprendo casualmente certi ordinamenti (e certi loro particolari aspetti) di cui nessun altro avrebbe accettato il rischio - allorché egli parla a voce altissima in termini pittorici. Trasudando il monismo di Dio non è abbattuto.
Si dà, dunque, il caso che Malevič e El Lissitzkij abbiano più cose in comune di quanto si potrebbe sospettare. La precisione e la regolarità di El Lissitzkij, che ho avuto cura di sottolineare continuamente, sono caratteristiche che il discepolo aveva certamente trovato nel maestro. Ma l'arte è, di solito, infida. Qualità che, nelle mani di Malevič, erano positive, perchè in tensione con altre qualità e altri interessi che, a rigore, avrebbero dovuto soverchiarle, nelle mani di El Lissitzkij erano sostanzialmente un limite.
Vi sono, naturalmente, delle eccezioni a questa regola.
Quello di Vitebsk rappresenta, in genere, un periodo eccezionale proprio perchè il campo di forza di Malevič è ancora molto vicino. Il tabellone di propaganda ne costituisce una prova.
Un'altra è il quadro in memoria di Rosa Luxemburg.
Il fatto che entrambe queste opere ci offrano un esempio del modo in cui le tipiche caratteristiche di El Lissitzkij si ripresentano con l'impiego di gran parte dello stesso materiale (la Città e il quadro in memoria di Rosa Luxemburg senza le parole scritte) accresce l'importanza di quel momento di libertà.
Non intendo dire che non vi sia mai stato, in seguito, un momento di libertà. Abbiamo Pressa. Abbiamo la sala dei Proun di El Lissitzkij. Abbiamo i suoi migliori (i più rozzi) fotomontaggi stalinisti. [...]

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[1] - Sull'accoglienza che il libro di Malevič ebbe all'interno del gruppo, cfr. Nakov, pp. 412-13. Christina Kiaer mi ha gentilmente segnalato, e ha tradotto per me, una recensione del libro, scritta dal critico marxista Boris Arvatov: cfr. B. Arvatov, K. Malevich, Bog Ne Skinut (Iskusstvo. Tserkov'. Fabrika), in «Pechat’ i Revoliutsiia», (1922), n. 7, pp. 343-44. E’ una recensione implacabilmente ostile: mentre 1'impazienza di Arvatov per l'oscurità di Malevič è pienamente giustificata, la sua interpretazione di molte tesi del testo mi sembra in gran parte errata. A quanto pare, Arvatov era rimasto particolarmente irritato da un'osservazione che Malevič gli aveva fatto personalmente, dicendogli: «Il marxismo è una filosofia che si dà ai bagordi» (p. 344)
[2] - Per una discussione dello spostamento di posizione dell'io parlante nell'opuscolo, cfr. Y.-A, Bois, Lissitzky, censeur de Malévitch?, in «Macula», (1978), nn. 3-4, p. 196, nota 16: «La volute énonciative de Malévitch, dans l'ensemble de ce texte où le "je" change sans cesse de position, et défend tantôt les positions de "l'Art", tantôt celles de "l'Eglise", tantôt celles de "la Fabrique", n'est pas faite pour simplifier l'interpretation» [«Il giro del discorso di Malevič, nell’insieme di questo testo nel quale l'"io" cambia continuamente posizione, e difende ora le posizioni dell’"Arte", ora quelle della "Chiesa", ora quelle della "Fabbrica", non è fatto per semplificare l'interpretazione»]. Sono d'accordo, anche se continuo a pensare che sia possibile dare un senso alla deriva del testo nel suo complesso, cosa che finora nessun commentatore ha cercato realmente di fare (e si capisce perché).
[3] - Cfr. Malevič, Dio non è abbattuto, in particolare le tesi 5, 6, 10 (per somma» qui e da intendere «totalità») e 23. Ma la polemica contro la totalizzazione e onnipervasiva. Cfr. più sotto, la nota 24. Qui potrebbe cominciare una seria discussione testuale con un autore come B. Groys, The Total Art of Stalinism: Avant-Garde,Dictatorship, and Beyond, trad. di Ch. Rougle, Princeton 1992, specialmente le pp. 15-19, per il quale il futuro totalitario era già inscritto nel progetto dell'avanguardia russa, e in particolare nelle teorie di Malevič. Al livello di generalità cui si muove Groys, la tesi è irrefutabile (e poco interessante).
[4] - Ibid., tesi 6, in Andersen, vol. I, p. 192. Per quanto eroiche, le traduzioni contenute in K. S. Malevich, Essays on Art, a cura di T. Sndersen, 4 voll., Copenhagen 1968-78, non sono assolutamente adeguate. Tuttavia....
[5] - Ibid., tesi 5, in Andersen, vol. I, p. 191.
[6] - Ibid., tesi 2, in Andersen, vol. I, p. 188. (Andersen usa «stimolo», Marché e Nakov preferiscono «eccitazione»).
[7] - Malevič, Arte Non-oggettiva e Suprematismo, in Andersen, vol. I, p. 121.
[8] - Malevič, Arte Non-Oggettiva e Suprematismo, in Anderson, vol. I, p. 120.
[9]  - Cfr. T. Andersen, Malevich, catalogo dello Stedelijk Museum, Amsterdam 1970, p. 98, n. di catalogo 65.
[10]  - K. Malevič, Il Mondo Non-Oggettivo, ed. riveduta, trad. di H. Dearstyne, Chicago 1959. Ho preferito qui la traduzione di Ch. Douglas, Beyond Reason: Malevich, Matiushin, and Their Circle, in The Spiritual in Art: Abstract Painting 1890-1985, New York 1986, p. 190, ma nel paragrafo successivo do la versione fornita da Howard Dearstyne di alcune frasi dello stesso libro, per non nascondere i problemi di traduzione che il testo di Malevič presenta.
[11] - Cfr. K. Malevič, Monumenti non costruiti da mani umane, in “Isskustvo Kommuny”, n. 10 (9 febbraio 1919) in Amsterdam, vol. I p. 66.
[12] - Malevič, Arte Non-Oggettiva e Suprematismo cit., in Anderson, vol. I, p. 122.
[13] - Dichiarazione di 1000 giovani studenti che hanno firmato un appello all’Occidente, documento UNOVIS, primavera 1921, citato in Larisa A. Žadova, Malevich. Suprematism and Revolution in Russian Art 1910-1930, London 1982, p. 8. Naturalmente si discuteva in seno all’UNOVIS se, e fino a che punto, dovesse essere inteso alla lettera il grido di guerra « fine della pittura/inizio dell’architettura ». Čašnik parla del laboratorio di architettura e di tecnica come del  «  crogiolo di tutte le altre facoltà della scuola dell’UNOVIS, verso il quale devono tendere gli sforzi di ogni personalità creativa in un collettivo unificato dei costruttori delle nuove forme del mondo». Cfr. I. Čašnik, The Architectural and Technical Faculty, «UNOVIS Almanach 2», citato in Art and Design Profile cit., p. 30. Khidekel, in un volantino di propaganda del 1920, usa toni duri, ma cerca anche di lasciare un certo spazio per una continuazione della pittura: « Se alcuni compagni affermano che non vogliono essere architetti, mache non intendono, per questo, opporsi al cubismo, al futurismo e al suprematismo, essi negano la loro stessa essenza. Produrre una tela, infatti, non è un compito da considerarsi esaurito: lo affrontiamo al solo scopo di costruire su di essa quell’elemento – il segno – che è indispensabile per quel lavoro creativo di costruzione e di invenzione che rappresenterà l’autentico fondamento della nostra cultura». Cfr. L. Khidekel, The New Realism. Our Modern Times, in Zadova, Malevich cit., p. 301. Di nuovo ricorre continuamente la parola “segno”.
[14] - El Lissitzkij, PROUN, testo De Stijl, in Lissitzky-Küppers, El Lissitky cit., p. 348.
[15]- El Lissitzkij, PROUN, testo 1920-21, in ibid., p. 60.
[16] - Il suprematismo nella ricostruzione del mondo, in ibid., p. 334. Donald Nicholson-Smith mi ha fatto notare che le ultime righe sembrano una parafrasi della tesi sostenuta da Malevič in un altro testo coevo, L’ozio come verità effetiva dell’uomo. Cfr. K. Malevič, La parusse comme vérité effective de l’homme, trad. di R. Gayraud, Paris 1995. Un passo che si legge a p. 27 appare come un utile complemento a Dio non è abbattuto: «Dopo aver conseguito un simile grado di perfezione, potremmo giungere a Dio, cioè all’immagine che l’umanità ha predeterminato nella rappresentazione, nelle leggende o nella realtà. Nascerà allora una nuova forma di inattività, divina questa volta, un non-stato nel quale l’uomo scomparirà, perché egli farà il suo ingrasso nella suprema immagine della sua perfetta predeterminazione ». Ci vorranno, per questo, alcune migliaia o alcuni milioni di anni, afferma Malevič, ma l’uomo sente realmente il bisogno di essere onniscente e onnipresente.
(NdR - In questo stesso anno 2013, è stato pubblicato il testo di K.M. su l'ozio, ritradotto come "L'inattività..." per l'editrice Asterios. La sinistra storica non è estranea alla trattazione di tale argomento: cfr. il testo sull'ozio di Lafargue).
[17] - CFR., ad esempio, i già citati articoli di Y.-A. Bois; A. Birnholz, For the New Art: El Lissitzky’s Prouns, in “Artforum”, VIII, (1969), nn. 2 e 3, p. 65-70 e 68-73; D. Karshan, Lissitzky: the original Lithographs, An Introduction, in  El Lissitzky (Köln 1976), pp. 25-33; S.C. Magomedov, A new syle Three dimensional Suprematism and Prounen, in El Lissitzky Architet Painter Photographer Typografer cit., pp.35-45.
[18]. Malevič, Futurism-Suprematism, in Kasimir Malevich 1878-1935, Los Angeles 1990, p. 177. Questo testo è pieno di una fisica atomica del tutto fittizia: « Nel suprematismo la massa dell’energia si abbatte sul piano bidimensionale incostruzioni cromatiche individuali, col risultatoche ogni paino o volume diventa un’unità indipendente sospinta dla proprio movimento», e così via.
[19] - I. Čašnik, The Suprematist Method, in Hutton Galleries, Ilya Grigorevich Chashnik cit. p. 21.
[20] - Malevič, Il Mondo Non-Oggettivo, citato in Lissitzky-Küppers, El Lissitzky cit, p. 20.
[21] - Entrambe le citazioni sono tratte da El Lissitzkij, “PROUN”, testo De Stijl, in ibid., pp. 347-348.
[22] - Kazimir Malevič a Michail Matyušin, s. d. (ma giugno 1916) citato in Zadova, Malevich cit, p. 124, nota 39.
[23] - Malevič, Dio non è abbattuto, tesi 24, in Anderson, vol I, p. 213 (altra traduzione impenetrabile, che Nukov e Marcadé aiutano a decifrare).
[24] - Ibid. tesi 24. La polemica contro il materialismo marxista ha un ruolo centrale anche in questa sezione del libro. Cfr. le tesi 22, 23 e 31. Anche ciò che la maggior parte di noi intende per religione subusce duri colpi. Dio non è abbattuto, ma per “Dio” Malevič intende il Nulla, la non-oggettività. Dio è qualcosa che l’uomo ha creato come “oggetto di rappresentazione”, così come l’uomo ha creato il mondo “dal nulla della propria rappresentazione”. Cfr. la tesi 33. Ma ciò non significa, secondo Malevič, che sia possibile sbarazzarsi delle rappresentazione del “mondo” e di “Dio”, quanto meno in un prevedibile futuro. Cfr. la precedente nota 16.

Il testo e le immagini sono tratte dal libro di Timothy J. Clark, Addio a un'idea. Modernismo e Arti visive, traduzione di Aldo Serafini, Giulio Einaudi editore, Torino 2005, pp. 249-260. Titolo originale, Farewell to an Idea: Episodes from a History of Modernism, T.J. Clark 1999. Ringraziamo l'autore, ma siamo rammaticati di non aver trovato le reali dimensioni delle immagini, che di solito aiutano a togliere la pittura dal regno dell'idea.